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Parità salariale. La nostra Proposta di legge regionale per l’equità retributiva

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Secondo le rilevazioni del World Economic Forum sulla base dei dati di fine 2019 si stima che con il trend attuale la disparità politica fra donne e uomini potrà essere superata fra 95 anni mentre per superare quella retributiva ne serviranno 250. Un dato sconcertante che però la dice lunga sulla situazione in cui viviamo, ulteriormente aggravata dalla pandemia che ha prodotto un forte rallentamento al cammino per la riduzione del divario retributivo di genere (gender pay gap). Il lockdown imposto per limitare il diffondersi del virus, ha provocato un arretramento delle posizioni faticosamente raggiunte, dal momento che, come è risaputo e ampiamente dimostrato, l’occupazione femminile ha subito più di quella maschile gli effetti della pandemia.

Il 30 gennaio 2020 il Parlamento europeo ha adottato una risoluzione con il preciso obiettivo di ridurre significativamente la disparità salariale entro il 2027 attraverso la messa in atto di una serie di misure capaci di agevolare l’accesso delle donne in aree di studio e lavoro a predominanza maschile, favorire la flessibilità dell’orario e migliorare i salari e le condizioni di lavoro in settori con maggiore presenza femminile. La disparità, infatti, che è prima di tutto una evidente ingiustizia sociale, rappresenta un freno alla crescita dell’economia (si stima che la riduzione dell’ 1 per cento del divario retributivo di genere produca lo 0,1 per cento di aumento del PIL) e un limite alla lotta contro la povertà, in particolare in età avanzata, quando a salari minori corrisponderanno pensioni più basse (il divario pensionistico di genere UE si assesta al 29 per cento).

Secondo i dati forniti da Eurostat nel 2018 in Europa il divario di genere nell’occupazione valeva 370 miliardi di euro, pari al 2,8 per cento del prodotto interno; la qualità e l’aumento del lavoro femminile e del superamento del divario retributivo interessa quindi la collettività e non solo le lavoratrici.

La Commissione europea, impegnata insieme alle altre istituzioni per la riduzione del divario retributivo di genere, ha redatto un documento da cui emergono dati piuttosto scoraggianti fra i Paesi UE, migliorabili solo attraverso l’impiego di azioni e risorse mirate, capaci di imporre un decisivo cambiamento prima di tutto culturale.

Il “Pilastro europeo dei diritti sociali” stabilisce espressamente fra i suoi obiettivi la necessità di lavorare per conseguire l’uguaglianza di genere per fare dell’ Europa un luogo più equo, inclusivo e ricco di opportunità. In particolare, per colmare il gender pay gap, la Commissione sta chiedendo agli Stati membri di adeguare le proprie legislazioni introducendo sia il criterio della trasparenza salariale vincolante, secondo cui le aziende sono legalmente obbligate a redigere rapporti sulla situazione del personale maschile e femminile, sia un maggiore equilibrio fra vita lavorativa e privata, da attuarsi attraverso opportune modifiche all’istituto del congedo parentale e altre forme di flessibilità.

I dati e le statistiche diffuse dimostrano che all’interno dell’Unione europea il divario occupazionale è pari all’11, 7 per cento (uomini occupati al 79 per cento, donne occupate al 67,3 per cento). La disparità salariale (dati completi 2019) è decisamente più alta; infatti, la differenza di paga oraria media è del 14,1 per cento mentre la differenza in busta paga si attesta al 37per cento, anche a causa di un numero maggiore di donne (30,7 per cento) rispetto agli uomini (8 per cento) con contratto part time. Se poi si tiene conto delle ore lavorate sulla retribuzione mensile lorda la differenza sale ancora fino al 23,7 per cento. Altro rilievo interessante prodotto da Eurostat sulla base dei dati 2014 riguarda il reddito complessivo di uomini e donne elaborato senza separare chi ha e chi non ha una occupazione. Tale dato misura l’indipendenza economica e per l’Italia rimarca un divario del 43,7 per cento contro una media europea del 39,6 per cento.

In tutti gli Stati dell’Unione europea le donne sono pagate significativamente meno degli uomini, i più alti divari (dati Eurostat febbraio 2021) riguardano l’Estonia, l’Austria e la Germania (intorno al 20 per cento), i più bassi il Lussemburgo con 1,4 per cento e anche l’Italia con il 3,9 per cento. Occorre però rilevare che un divario retributivo più basso non significa necessariamente che le donne sono meglio retribuite in un Paese rispetto all’altro. I numeri e le percentuali talvolta non riflettono in pieno la situazione reale perché un divario retributivo più basso può derivare da una minore partecipazione delle donne al mercato del lavoro, mentre percentuali più alte possono derivare da un elevato numero di donne con contratti part time o da una loro concentrazione in un ventaglio ristretto di professioni.

Altri studi effettuati sempre da Eurostat sul divario retributivo fra uomo e donna hanno preso in considerazione la retribuzione oraria lorda delle aziende pubbliche e private con più di dieci dipendenti. Anche in questo caso l’Italia si pone al di sotto della media Europea. Questo dato apparentemente molto incoraggiante non tiene però conto di alcuni criteri fra cui la distinzione fra il settore pubblico e quello privato che, se presa in considerazione, fa emergere una realtà molto diversa, in cui, purtroppo, si evidenzia un profondo divario fra dipendenti pubblici e privati. Fra le donne e gli uomini occupati in aziende pubbliche il divario retributivo di genere non sale oltre il 4,4 per cento mentre nel privato balza al 17,9 per cento.

Tali dati sono in linea con le ultime valutazioni OCSE che ha analizzato il problema della disparità salariale in una più ampia cerchia di Paesi, in questo caso la media della differenza salariale fra uomo e donna si assesta al 4,1 per cento nel settore pubblico mentre in quello privato arriva al 20,7 per cento.

Se è un fatto acclarato che a parità di mansione donne e uomini sono pagati diversamente, è anche vero che questo meccanismo è talmente radicato nella nostra società che risulta difficile da scardinare. Spesso manca la consapevolezza di subire una ingiustizia e comunque le donne faticano a denunciare la discriminazione subita.

E’ per questo motivo che al primo punto nell’agenda delle azioni da attuare per il contrasto al divario retributivo di genere si pone la necessità di parlare il più possibile del problema e divulgare quanto accade nei luoghi di lavoro, rivendicando allo stesso tempo nelle aziende pubbliche e private la trasparenza delle retribuzioni e della situazione del personale per far emergere le disparità.

Le cause delle differenze salariali sono molteplici fra cui anche la scelta delle donne di accettare impieghi più flessibili e meno retribuiti per riservare tempo alla casa, ai figli o ai genitori anziani, con la conseguenza che gli aumenti di stipendio vengono “barattati” con la maggiore flessibilità. In pratica le donne svolgono più ore di lavoro non retribuito rispetto agli uomini, 6/8 ore del Nord Europa fino a 15 in Paesi come l’Italia. Il lavoro non retribuito dedicato ai figli e alla casa si traduce in minore disponibilità oraria di lavoro retribuito, tant’ è vero che un terzo delle donne lavora part time.Un dato significativo è ad esempio riferito all’anno 2016 in cui sono stati assunti con contratto a tempo pieno e indeterminato l’80 per cento degli uomini contro il 57 per cento delle donne.

Oltre a un numero inferiore di ore lavorate per dedicarsi a carichi di famiglia il divario retributivo risiede in altre cause come la propensione delle donne ad avere interruzioni di carriera o scelte professionali che più di altre permettono di dedicarsi a responsabilità familiari ma anche nella sovra rappresentanza di donne in settori con bassa retribuzione come l’assistenza o la vendita. Contribuiscono infine ad aumentare il divario salariale la ridotta presenza di donne, solo il 20 per cento, in settori meglio retribuiti come quelli denominati STEM (scienze, tecnologia, ingegneria e matematica), il fatto che meno del 10 per cento degli amministratori delegati di aziende sono donna e che tra i dirigenti del settore privato esiste una forte sproporzione di retribuzione, nell’ordine di grandezza del 23 per cento.

Sul divario retributivo pesa inoltre in modo considerevole la maternità che, oltre a rappresentare una penalizzazione per le lavoratrici madri, è un vero e proprio pregiudizio culturale, capace di generare discriminazioni ancora prima che la lavoratrice sia effettivamente in attesa di un figlio.

Le donne sono in generale più istruite ma pagano un costo elevato per accettare o scegliere lavori che ritengono più compatibili con le responsabilità familiari. Spesso scendono a compromessi che avranno conseguenze oltre la vita lavorativa, dal momento che, come certifica l’Istat, le donne sono il 52,2 per cento dei pensionati ma ricevono il 44,1 per cento della spesa complessiva.

Nel primo semestre del 2020 si è assistito in Italia ad un generico stop dell’aumento delle retribuzioni che ha influito maggiormente proprio su quelle femminili, bloccando di fatto il processo innescato negli ultimi anni che le aveva viste aumentare più rapidamente rispetto a quelle maschili, con la conseguenza di consolidare il divario retributivo di genere esistente.

Le donne insieme ai giovani sono state le prime vittime della crisi dovuta alla pandemia, ad oggi in Italia il tasso di occupazione femminile è drammaticamente sceso al 48,4 per cento, nel Meridione 7 donne su dieci non lavorano. In questo contesto piuttosto preoccupante le risorse del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza rappresentano una occasione imperdibile per mettere in atto misure e riforme capaci di aumentare la presenza delle donne nel mondo del lavoro, facendo venir meno gli ostacoli e i pregiudizi che da sempre la limitano, con l’obiettivo di eliminare o quantomeno ridurre la differenza retributiva di genere.

Il nostro Paese si è dotato, soprattutto nel corso degli ultimi anni, di norme atte a favorire la parità retributiva anche se, purtroppo, non sono stati raggiunti i risultati sperati. L’articolo 46 del Codice delle Pari Opportunità tra uomo e donna di cui al decreto legislativo 11 aprile 2006, n. 198 ha disposto ad esempio l’obbligo per le aziende pubbliche e private con più di cento dipendenti di redigere almeno ogni due anni un rapporto sulla situazione del personale maschile e femminile con riguardo ad assunzioni, formazione, promozione professionale, livelli, passaggi di categoria o di qualifica, cassa integrazione, licenziamenti, prepensionamenti e pensionamenti nonché retribuzione corrisposta. Il legislatore, consapevole che tale obbligo è stato spesso disatteso, nel decreto legge n.77/’21 sulla governance del PNRR ha disposto che, per favorire le pari opportunità di genere, gli operatori economici presentino, a pena di esclusione, unitamente alla domanda di partecipazione o all’offerta per la realizzazione degli interventi finanziati con le risorse del PNRR, il rapporto di cui all’articolo 46. Tale obbligo è eccezionalmente esteso anche agli operatori economici risultati aggiudicatari con un numero di dipendenti compreso tra 15 e 100.

La Commissione lavoro della Camera ha recentemente approvato all’unanimità un testo unificato che si propone di contribuire al superamento del gender pay gap e aumentare la presenza delle donne nel mercato del lavoro. Il testo, che a breve approderà in Parlamento, intende mettere in atto un processo che renda più trasparenti le politiche retributive e faccia emergere discriminazioni salariali allargando alle imprese sotto la soglia dei 100 dipendenti gli obblighi di comunicazione di cui all’articolo 46 del Codice delle Pari Opportunità tra uomo e donna, anche ricorrendo a forme di premialità che sollecitino i datori di lavoro a rendere pubblici i dati sul personale. Il disegno di legge riconosce la trasparenza retributiva come un importante veicolo di cambiamento, dal momento che rendere noto il divario rappresenta di per se’ un incentivo a cambiare. L’informazione sui livelli retributivi, infatti, oltre ad essere un mezzo per capire il problema e adottare adeguate politiche di contrasto, è un elemento che  consente alle imprese di acquisire consapevolezza, modificare le proprie prassi e adottare misure per garantire equità.

E’ quindi un dato di fatto che la questione del divario retributivo tra uomini e donne è un argomento complesso che tocca molti temi centrali per il progresso del nostro Paese. La legge regionale 26 del 2008 aveva già posto la propria attenzione su alcune azioni da perseguire in materia di occupazione, formazione, conciliazione deitempi di vita e di lavoro ma, ad oggi, occorre ritornare sul testo per integrarlo e dare ulteriore forza a strumenti già previsti e a nuove misure.

La presente proposta di legge intende contribuire a colmare il divario retributivo di genere tra uomini e donne assunto come uno dei principali obiettivi dell’Unione europea per i prossimi anni.

Retribuzione oraria inferiore, minori ore di lavoro retribuito e minor tasso di occupazione sono gli elementi che producono un ingiusto divario retributivo a cui si può porre rimedio attraverso un insieme di azioni che modifichino allo stesso tempo norme e cultura dei Paesi. La Regione Liguria può, insieme agli altri livelli istituzionali, mettere in campo politiche capaci di contribuire all’obiettivo prefissato, e cioè favorire la trasparenza delle retribuzioni e delle altre situazioni del personale maschile e femminile nelle aziende pubbliche e private e incentivare gli studi e le carriere professionali nei settori meglio retribuiti e con meno presenza femminile come le quelli delle discipline denominate STEM (scienze, tecnologia, ingegneria e matematica). A tal fine la PDL propone di integrare la legge regionale 1 agosto 2008 n. 26 sulle politiche per le pari opportunità di genere con misure e azioni, che, contrastando stereotipi e pregiudizi, portino le donne in numero sempre maggiore ad applicarsi nello studio di materie scientifiche e nelle conoscenze informatiche, acquisendo conoscenze e professionalità che le portino ad occupare posti di lavoro meglio retribuiti e più stabili. La PDL propone inoltre di integrare la legge 26/08 con l’istituzione di un registro delle imprese che, volontariamente e fuori dagli obblighi di legge previsti dal decreto legislativo 198/’06, applichino nella propria organizzazione la trasparenza dei dati sul personale redigendo con regolarità rapporti sul personale maschile e femminile comprensivi delle retribuzioni corrisposte e di tutti gli altri dati che, anche in modo indiretto, influiscono sulla diseguaglianza retributiva di genere.

Per la proposta di legge spiegata in breve: https://www.facebook.com/lucagaribaldi82/photos/a.2071485379763602/2700402393538561/

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