E’ passato un mese esatto dall’inizio della quarantena. All’inizio era il momento dell’attesa, del fatto che dovesse “passare la nottata”; poi c’è stata la ricerca della condivisione, della preoccupazione sincera per come gli altri, prossimi o meno, stavano vivendo questa situazione inedita. Poi la tensione emotiva continua, alternando momenti di sconforto a quelli di maggiore fiducia. Ne abbiamo già parlato in queste settimane.
C’è un aspetto su cui ho molto riflettuto in queste settimane e riguarda le parole. Non solo l’abuso delle parole, l’ansia di commentare ogni cosa, il facile propagandismo che anche in questi momenti di grande gravità certi personaggi non riescono ad accantonare. E neppure il fatto che in molti casi manchino le parole per dire la situazione in cui siamo e il turbamento che si ha quando non si trovano “le parole giuste per dirlo”. Su questo c’è, in linguistica, una parola: “ipocognizione”, che rappresenta bene la sensazione di chi è meno consapevole, in grado di elaborare qualcosa, perchè sprovvisto delle parole per descriverlo.
Ma a ragionare sulle parole, principale è il fatto che – in tanti casi – la quarantena abbia portato a riflettere non sulle tante parole dette, ma a quelle che non ho detto.
Vale per tanti campi: dal fatto che l’assenza della possibilità di incontrare persone, ti invita a pensare al fatto che forse sarebbe stato meglio cogliere l’occasione di parlare di quell’argomento per cui si è sempre rinviato, dato che si dava per certo che il momento sarebbe stato sempre disponibile. A dare di dare magari meno per scontate le parole che si dovrebbero dire a quelli che ti sono più vicini o meno. Al fatto che forse il tempo per quella telefonata ad un amico lontano, o al parente che incontri solo nelle feste comandate, lo devi trovare, o affrontare questioni sempre rimandate.
Ma vale tanto per la politica, per le parole che non si son dette. Che anche io, e lo dico con autocritica, non ho detto. Quante volte, in questi anni, si è scelto di lasciare le parole giuste, custodite nella propria testa. Quale clamoroso salto ha avuto in questi ultimi due mesi la percezione della sanità pubblica, dello Stato, dell’universalità della scuola, della necessità di chiedere di più a chi ha di più. E che nessuno deve essere lasciato solo. Di dare scale di priorità tra la salute e il profitto? E quante volte in questi anni, pur pensando che fossero aspetti giusti, non siamo stati radicali nell’applicare queste parole, perchè “le compatibilità non lo consentono”, o perchè per molti essere moderni significava dire cose diverse dalle parole antiche che ci hanno formato. Ecco. No. Valeva per prima, vale ancora di più oggi.
Se si vuole dare un senso alla frase “dopo non sarà più nulla come prima”, è anche dalle parole che non si sono dette, o si sono edulcorate per timidezza, magari perchè desuete, fuori moda, che bisogna ripartire. Dirle tutte, fino in fondo. E agire radicalmente, in quella direzione.