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La sanità ligure e la destra: una tragedia in tre atti

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Relazione di Minoranza al Piano Socio Sanitario 2023-2025

La discussione sul Piano Socio Sanitario Regionale 2023-2025 rappresenta l’occasione per sottolineare l’evoluzione della politica sanitaria di Regione Liguria dal 2015 ad oggi. Evoluzione o meglio dire involuzione del sistema sanitario pubblico ligure, di cui questo piano costituisce l’ultimo atto, e nei fatti, un elemento di fallimento complessivo della programmazione sanitaria ligure. Sia negli esiti della passata programmazione, quella ricadente nel Piano Socio Sanitario Regionale 2017-2019, sia per la mancanza di prospettive inerenti il futuro della sanità ligure, dopo la stagione della pandemia da COVID 19 e le iniziative straordinarie ad esse collegate, che, per un lasso di tempo troppo breve, avevano riportato al centro della politica la sanità come tema costitutivo delle politiche pubbliche, con necessarie scelte di bilancio e di investimento. 

A dimostrazione di tutto ciò, il Next Generation EU, nella sua Missione 6 ha posto una forte centralità al sistema della sanità territoriale, dell’ammodernamento delle infrastrutture materiali e immateriali per accompagnare i Paesi beneficiari – e l’Italia ne è uno dei maggiori – ad una necessaria riforma del sistema, salvaguardandolo dalle sue storture e da una mancata manutenzione che ha caratterizzato gli ultimi anni.

La pandemia è stato un punto di rottura storico, che avrebbe dovuto portare a consolidarsi alcune riflessioni di sistema: ma, come direbbe Gramsci, la storia insegna, ma non ha scolari. E infatti a poco più di tre anni da quell’evento che ha segnato un prima e un dopo e mostrato le estreme fragilità dei sistemi sanitari, siamo a discutere di misure, di azioni, di prospettive che dimostrano che non abbiamo capito quasi nulla da quell’esperienza, e che la stagione degli investimenti nella cura e nella sanità pubblica sono stati una parentesi di necessità, e nulla più.

In questo, la discussione ligure e il suo “modello”, si iscrivono in una fase in cui è in discussione, da parte del Governo Meloni, una manovra di bilancio che certifica – al netto degli adeguamenti dell’inflazione – un’ulteriore ritirata degli investimenti nella sanità pubblica, rattrappiti sempre più, con l’aggiunta, di puro autolesionismo, di una aggressione senza precedenti alle condizioni contributive del personale sanitario in uscita, che in questi anni di mancata programmazione, sono stati il vero pilastro di tenuta della sanità pubblica, e a cui il Governo decide, come segno di commiato e di ringraziamento, di penalizzarli economicamente. Nel silenzio, ormai consolidato, della Regione, a partire dal Presidente e dall’Assessore delegato, che anche a fronte di tali ingiustizie, alla scarsità dei fondi previsti per la sanità, preferiscono la strada dell’acquiescienza che quella della difesa della dignità di un sistema in crisi.

Crisi che da tempo sta già investendo il nostro modello sanitario ligure, in un processo sempre più evidente di rarefazione della certezza al diritto di cura attraverso la sanità pubblica. Gli oltre 90.000 liguri che nel 2023 hanno rinunciato a curarsi, per l’inefficienze del sistema, come rilevato da una ricerca scientifica commissionata dal Gruppo Partito Democratico, ne sono un segnale evidente e preoccupante dal punto di vista della tenuta della coesione sociale, prima ancora che da quello sanitario. A cui si possono aggiungere altri elementi caratterizzanti: dall’esodo del personale sanitario, che ci rende una regione ancora più debole rispetto a quelle vicine, ai numeri elevatissimi di mobilità sanitaria (oltre 60 milioni di euro), al disequilibrio economico con cui si sono chiusi gli ultimi esercizi finanziari, alla vetustà dell’edilizia sanitaria e alla mancata realizzazione di nuovi ospedali, fino alla crescita esponenziale della spesa out of pocket dei cittadini.

Certo, la crisi dei sistemi sanitari è nazionale, ma le caratteristiche della nostra regione e le scelte politiche di questi anni la rendono ancora più acuta. Ovviamente tutto questo  non è imputabile al Piano Socio Sanitario in oggetto, che è l’ultimo capitolo di una serie di scelte che vengono da lontano. 

Una tragedia in tre atti, che devono essere raccontati per capire come siamo arrivati fin qui e perché oggi certifichiamo il fallimento della politica sanitaria di Toti e della destra.

Atto primo. Gli anni di Sonia Viale, o dell’importazione dei lombardi. Nel 2015, sull’onda della vittoria, sceglieste una strada, cioè di scimiottare la Lombardia, senza esserlo. C’era, a proporlo, una Assessora unica per la sanità e per il sociale – una scelta che, sbagliando, non avete portato avanti in questo mandato: Sonia Viale. E c’era un lombardo, leghista, Locatelli,  a guidare la riforma e a gestire la creatura peggiore che avete messo in campo, A.li.Sa, l’azienda ligure sanitaria, una sovrastruttura inutile e dannosa. Il piano Socio Sanitario Regionale 2017-2019 venne anticipato dalla redazione del “libro bianco”, che all’epoca definimmo vuoto, ma che a differenza di questo almeno aveva qualche numero, con una serie di incontri e di discussioni sul territorio che vennero fatti prima della riforma stessa. 

Qual era il cuore della strategia Viale – Toti? Costituire un modello “competitivo” tra pubblico e privato accreditato, in cui si dava “libertà di scelta” ai cittadini di rivolgersi all’uno o all’altro; accentrare le funzioni di governo in una unica struttura regionale, depotenziando – o meglio zittendo – le spinte territoriali; attivare una stagione di radicamento del privato in Liguria con la privatizzazione di alcuni poli ospedalieri (Bordighera, Cairo, Albenga) e la realizzazione di un nuovo ospedale privato agli Erzelli. Il tutto coordinato dalla nascita dell’Azienda Ligure Sanitaria, ALISA, da cui passava ogni cosa, con risultati che stiamo ancora pagando oggi.

Di quell’abbozzo di strategia ci rimangono ferite enormi: per “fare spazio” ai privati, il pubblico si è raggrinzito, le vocazioni degli ospedali sono state riordinate ma senza raggiungere i risultati sperati. I bandi per le privatizzazioni sono andati deserti, con l’aggiunta pure di cause verso la Regione stessa. Oltre a non riuscire a realizzare gli ospedali che la Giunta si era ripromessa di fare, non è neppure riuscita a fare partire quelli già previsti: dopo la posa della prima pietra del Felettino nel 2016, il percorso si è fermato e ad oggi, otto anni dopo, di quell’ospedale non c’è nulla, se non i soldi pubblici a cui abbiamo dovuto rinunciare e l’ipoteca sui conti della sanità, perché per realizzarlo, si ricorrerà ai privati.

L’applicazione – stupida – del modello lombardo ha portato a invenzioni clamorose e a una conflittualità infinita: si pensi al sistema della “regressione tariffaria”, che ha colpito il sistema della residenzialità ligure; oppure i tagli al trasporto sanitario e alle pubbliche assistenze, per citare alcune iniziative. Oppure, caso ben più grave, la vicenda dei concorsi per assunzione del personale, in cui ALISA ha dimostrato la propria incapacità e ha condizionato ancora di più il modo con cui abbiamo affrontato la pandemia di COVID 19. Perché nessuno era pronto, ma noi lo eravamo ancora di meno.

Nonostante a parole si dica che c’è un prima e un dopo la pandemia, esiste un meccanismo di rimozione rispetto a quello che è stato, al dramma enorme che ha rappresentato la pandemia, la presa di coscienza della fragilità dei nostri sistemi sanitari, del diritto alla cura non esigibile, del peso enorme caricato sui migliaia di medici, infermieri, operatori sanitari, volontari. Un meccanismo che ci ha fatto dimenticare la confusione organizzativa dei primi mesi, la scelta della nave ospedale, le ordinanze sballate, la tragica gestione della seconda ondata, il caos iniziale nella gestione dei vaccini, il sistema a zone, l’occupazione delle terapie intensive sempre sul limite, solo per citare alcuni esempi

Arriviamo al secondo atto. Gli anni dell’incuria In Liguria questa fase è stata gestita direttamente dal protagonista, che in questo secondo atto della tragedia ha svolto un ruolo decisivo. Il presidente della Giunta Regionale Toti, che con una scelta unica in tutta Italia, decide di tenere per sé la delega alla sanità, oltre a quella del bilancio. Sono gli anni dell’incuria quelli di Toti, un arco di due anni in cui si sono gettate le condizioni del fallimento del sistema sanitario pubblico ligure, di cui Toti ha la piena responsabilità. Durante la pandemia, l’emergenza ha sempre imposto una discussione assai condizionata al superamento delle singole criticità, senza una prospettiva. Ma i segnali erano già piuttosto evidenti, per chi voleva coglierli. E anche la confusione organizzativa lo era.

Toti nei fatti certifica, con una delibera di giunta ad inizio 2020, la stagione di Alisa pigliatutto, sconfessando pienamente il lavoro dei primi anni (e quella struttura piuttosto inutile, che si aggiungeva alle ASL senza semplificare i percorsi). Un percorso che naturalmente avrebbe dovuto portare alla chiusura di ALISA, che invece resiste imperterrita nel suo operato, con funzioni però poco chiare. Ad Alisa si aggiunge una nuova struttura, la struttura di missione, una specie di “stanza dei bottoni” in cui si decide quasi tutto, senza alcun confronto né in aula né sui territori. Chi comanda, a chi spetti l’ultima parola, non era dato sapere. 

È in questo quadro di voluta opacità che la Regione imposta le prime azioni di attuazione del PNRR, durante il 2021, a partire dall’individuazione delle Case di Comunità e degli Ospedali di Comunità. Questo consiglio Regionale, nè i Sindaci delle Conferenze dei Sindaci delle varie ASL hanno mai avuto alcun ruolo programmatorio e decisionale sull’impostazione della sanità territoriale. Scelta, dall’alto,  le cui decisioni vengono inviate a Roma, senza neppure un passaggio informale. In altre Regioni, con una reale cultura di governo, il percorso di individuazione di quelle strutture era stato concordato con i Sindaci, con i distretti, con chi deve mettere a sistema la sanità territoriali. Qui, si è preferito giocare a Risiko, individuando le strutture per ogni territorio, senza alcun disegno di offerta sanitaria. E oggi, nel Piano Socio Sanitario che stiamo discutendo, si prende atto di una decisione, che ha evidenti storture, ma su cui non si può neppure intervenire. Con un ruolo programmatorio che diventa solamente di ratifica. È accaduto con il PNRR e continua ad accadere con molte iniziative condotte in quegli anni. 

L’organizzazione sanitaria regionale non viene modificata con il Piano, ma con un insieme di delibere di giunta che istituiscono, pian piano, nuove sovrastrutture. La proliferazione dei DIAR ne è l’esempio più evidente: ormai un DIAR non si nega a nessuno, neppure a chi è stato più vicino al Presidente della Giunta durante la pandemia. Un cordone magico che opera al di sopra delle ASL, in competizione con ALISA, con un bizantinismo organizzativo raro. I cui effetti si sono visti in molte partite, a partire dal fallimento politico del Piano Restart per il recupero delle liste d’attesa: in due anni le liste d’attesa sono aumentate, nonostante i fondi nazionali abbiano superato i 50 milioni di euro, arrivati per lo più agli erogatori privati convenzionati che in questi anni sono cresciuti e hanno occupato spazio nel sistema, senza che questo venisse minimamente governato.

A questo si aggiunge un’altra azione politica condotta per “smontare e rimontare” la sanità ligure senza un piano: la modifica del Gaslini e la nascita del cd Gaslini Diffuso. Proposta in una sessione di bilancio, senza neppure sentire sindacati e ordini, nei fatti si è deciso di “regionalizzare” il Gaslini, con una cessione di ramo d’azienda delle pediatrie e delle neonatologie delle singole ASL, senza però garantire i necessari correttivi per quanto riguarda il personale e le funzioni. Un ulteriore esempio di programmazione a tentoni, o a la carte, del sistema sanitario ligure, per rispondere ad emergenze, senza una strategia. 

O meglio, una strategia esiste, ed è la rimozione di ogni spazio di discussione e di confronto sui modelli sanitari, con un progressivo indebolimento delle resistenze e degli impatti delle decisioni. Il Piano Socio Sanitario opererà su uno scenario già mutato, con un modello decisionale caro a Toti, che prima decide e poi discute. E poi lascia ad altri la gestione delle sue decisioni.

È quello che sta accadendo in questo terzo atto della tragedia della sanità ligure, quello dell’implosione, con il nuovo Assessore Regionale Gratarola, chiamato a eseguire i desiderata del presidente della Regione, che resta il vero dominus della politica sanitaria ligure. Dopo anni, più per obbligo che per scelta, arriva in discussione il piano. E ci arriva in due fasi. La prima a novembre, con una fuga di notizie che apre una discussione sui giornali in merito ai punti nascita e all’organizzazione sanitaria genovese. Un piano che viene rivisto e ripresentato a marzo. Ovviamente anche in questo caso, i percorsi informativi e partecipativi si fanno dopo aver deciso, per una idea singolare di discussione e confronto pubblico, in cui la discussione è un atto dovuto, ma senza alcun contenuto e alcuna possibilità di incidere. Come si può riformare la sanità senza coinvolgere tutti gli attori, realmente, in questa sfida? Forse perché non la si vuole riformare, ma solo mantenere in piedi, gestirla, in attesa che il mercato e i cittadini decidano al posto della politica. Una visione residuale della politica sanitaria, e particolarmente arrendevole, che però nel piano emerge con straordinaria chiarezza. 

C’è una impostazione burocratica del Piano, come obbligo normativo e non come visione politica. Obbligo normativo peraltro di scarsa qualità, che rende irricevibile dal nostro punto di vista il Piano come strumento di programmazione. Un Piano Socio Sanitario deve avere alcuni elementi essenziali, per legge. Una mappatura dei bisogni della popolazione, un piano di azione, la definizione del personale per attuarlo e un quadro delle risorse economiche a disposizione per finanziare le singole attività del piano. Invece manca lo studio epidemiologico della popolazione ligure, non c’è un numero legato al personale, nè attualmente nè in proiezione, e non c’è un quadro economico e finanziario a supporto. Mancando questi elementi, questo documento è carta straccia, che dà una delega in bianco alla giunta a operare sulla base dei propri desiderata, spoglia il consiglio regionale di un potere decisionale e dimostra che la Giunta sta navigando a vista, senza un’idea chiara di futuro. Un dato estremamente preoccupante. Per questo chiederemo di sospendere il piano, fino a quando non verranno prodotti questi elementi essenziali per tenere insieme la sanità ligure.

In più c’è un’altra scelta politica sbagliata, all’origine del Piano. La scelta di separare il PSSR dal Piano Sociale Integrato Regionale è una decisione miope, se non stupida. Perché i due strumenti vanno ad incidere sui bisogni delle persone e saranno approvati a pochi mesi di distanza l’uno dall’altro, ma “non si parlano”. Come si può pensare di riorganizzare la medicina territoriale, definire chi e come sarà nelle Case di Comunità, quale saranno i ruoli dei distretti, senza far dialogare tutti i soggetti sociali, socio sanitari e sanitari? La strada della Giunta è stata quella di non farlo, con la beffa che il Consiglio approverà piani contraddittori che indirizzeranno risorse su misure analoghe senza un quadro d’insieme. Un ulteriore prova del fallimento politico della giunta con gravi problemi per il territorio che si troverà a seguire due riforme che operano a canne d’organo. La riforma dei distretti socio sanitari e l’insediamento della medicina territoriale, da un lato; dall’altro quella dei distretti sociali che dovrà essere completata entro il 2025, e che non coincide con la prima. 

Il modello proposto è ancora peggiore di quello del 2015, se è possibile, perché decide di fotografare le disuguaglianze dell’offerta sanitaria della nostra regione e di cristallizzarle  in una differenziazione tra area genovese, le ali della Regione e l’entroterra. Ora, la Giunta Regionale ha abituato ad una tripartizione della nostra regione in molti aspetti, ma la scelta di organizzare l’offerta sanitaria solo in maniera “geografica” e non di bisogno e di fabbisogno risulterà, alla lunga, inadatta a seguire le dinamiche regionali della sanità. Il modello propone una dissoluzione dell’ASL 3 genovese in mero gestore territoriale, in grado di acquisire prestazioni tra i vari soggetti erogatori, con un ruolo centrale del San Martino, in attesa della realizzazione del nuovo ospedale degli Erzelli, di cui non si sa ad ora neppure la natura? Sarà pubblico? Sarà convenzionato? Subirà la stessa sorte delle Case di Comunità, su cui si è già aperta una strada nel Piano, con un emendamento della maggioranza? Non è dato sapere. Quello che è dato sapere è che da un lato il modello “Genovese” opera in questa maniera, dall’altro si uniscono di fatto le ASL nel ponente e nel levante, mantenendole in vita come bidoni vuoti, ma imponendo una circolazione principale delle prestazioni all’interno di quelle aree stesse, che non hanno, per propria natura, la stessa offerta dei grandi poli ospedalieri genovesi, a cui si rivolgono “in subordine”. Terzo punto, le aree interne, quelle più a rischio di desertificazione sanitaria, verso le quali si promette una maggiore attenzione nella medicina territoriale, ma che nei fatti non hanno alcun tipo di strumento fattivo per vedere migliorata la propria situazione di accesso alla salute, tanto più se si pensa che già in questo momento vi è difficoltà a reperire medici di base e a garantire la piena copertura dei trasporti sanitari. 

C’è poi una aporia di fondo rispetto al modello che si vuole mettere in campo: da un lato si sceglie di individuare in un’eccellenza, come il Gaslini, un punto di riferimento “diffuso” su tutto il territorio ligure, rendendo plastica una scelta di “regionalizzare” il modello sanitario; dall’altro si “compartamentalizza” il principale ospedale Regionale, il San Martino rendendola anche Azienda Sanitaria territoriale dell’area genovese, con una doppia funzione – regionale e territoriale – che non si sa come si concilierà con la presenza, tra pochi anni – sempre che questa volta si riesca a realizzarlo – con il nuovo Ospedale degli Erzelli. 

Questo piano nasce però per dare ordine e attuazione a quanto previsto dalla riforma della medicina territoriale proposta dall’allora Ministro Speranza. Il cuore sarebbe quello, e invece  neppure su questo aspetto si riesce a registrare un cambio di impostazione radicale, sia di metodo che di merito. Di metodo, perché non ci può essere medicina territoriale senza coinvolgimento degli operatori del territorio, come invece è accaduto. Di merito perché la proposta è scritta sulla carta e non è minimamente sostenuta da numeri, percorsi, iniziative di sostegno e formazione. Manca un quadro per capire di quanto personale hanno bisogno le case di comunità per funzionare; mancano iniziative per rafforzare davvero i modelli di presa in carico e di “casa come primo luogo di cura”, integrando le varie professionalità presenti. La cecità di questa impostazione sta nel fatto che Regione Liguria ha scelto non di adattare i principii della medicina territoriali alle caratteristiche della nostra regione, ma di copiare e incollarle senza usare nè intelligenza nè immaginazione politica, come se l’organizzazione territoriale in Lombardia e in Puglia, siano replicabili tout court in una regione che demograficamente, orograficamente, culturalmente ha altre tendenze.

Oltre ad un piano che non progetta, questo è un piano che neppure “reagisce” alle emergenze sanitarie, riconosciute da tutti, ma accolte come se fossero irriformabili, negando il ruolo e l’azione della politica. A titolo di esempio, la carenza del personale sanitario a partire dal pronto soccorso non è neppure citata, nè si ipotizzano misure di gestione anche temporanee sull’emergenza-urgenza che possano consentire di “alleviare” la pressione, con nuovi modelli organizzativi che in altre regioni si stanno ipotizzando, anche con il superamento della strutturazione hub-spoke. Anche per la gestione delle centrali 118 e l’introduzione del numero unico ci sono delle criticità: si passa da 5 centrali a 3, ma il modello é sbilenco, rispetto all’organizzazione ospedaliera e alle altre scelte, con la ASL 4 che finisce sotto la rete dell’emergenza con la ASL 3, mentre continua la sua integrazione con la ASL 5 per il resto. La scelta dell’elisoccorso nel levante non baricentrico è una ulteriore riprova di un mancato coordinamento delle politiche.

Ma quello dell’emergenza urgenza non è il solo caso in cui non si “reagisce” ad una crisi. Nel piano non vi è una riga sul piano di governo delle liste d’attesa, la prima e più profonda criticità che i cittadini incontrano. I dati sono agghiaccianti:  su determinati esami e prestazioni – si pensi alla colonscopia –  un esame programmato ha almeno 7-9 mesi d’attesa; la scelta tra pagare ricorrendo al privato o aspettare il proprio turno nella sanità pubblica spinge sempre più liguri a rinunciare a curarsi,  un dato in crescita anche a livello nazionale. Il Piano Restart che avrebbe dovuto “recuperare” le liste d’attesa non ha funzionato, tant’è che gli esiti di questa misura non sono neppure contenuti nel Piano Socio Sanitario. Indicativo del fatto che il Sistema Sanitario Regionale abbia nei fatti rinunciato anche ad una funzione di monitoraggio e di governo delle priorità delle liste d’attesa, sostituendo la programmazione con la privatizzazione diffusa, che però non garantisce equità d’accesso, uniformità sul territorio regionale, universalità delle prestazioni.

In risposta alle liste d’attesa, i pazienti “scelgono con i piedi”, andando a individuare sistemi sanitari regionali più in grado di corrispondere alle proprie esigenze. Alla mobilità passiva non è dedicato alcun tipo di passaggio nel Piano Socio Sanitario Regionale: un’assenza che ha dell’incredibile, per una regione che stabilmente si colloca, come dinamiche della mobilità passiva, come una regione del sud nei rapporti con il resto del nord italia: le fughe negli ultimi otto anni sono costate mezzo miliardo di euro, una media di 60 milioni di euro l’anno. Mezzo miliardo di euro che sono stati sottratti al personale, all’edilizia sanitaria, alla medicina territoriale.

E a proposito di edilizia sanitaria, anche in questo caso si rileva una aporia evidente. Da un lato, il Piano individua come strategici la realizzazione di tre nuovi ospedali – Taggia, Erzelli, Felettino; dall’altro nessuno di questi sarà realizzato prima della scadenza del piano stesso, cioè il 2025. Ma il piano opera “come se” ci fossero già i nuovi ospedali, con una programmazione di lungo periodo che “ridimensiona” già i poli e l’organizzazione sanitaria in vista della nuova impostazione: una scelta azzardata, vista la manifesta incapacità della Giunta Regionale di portare avanti in questi anni alcun piano di edilizia sanitaria e di realizzazione dei nuovi ospedali. In questo, preoccupa ancora di più la confusione che si sta generando attorno al nuovo ospedale degli Erzelli, su cui vi è un investimento di INAIL (come su quello di Taggia), ma su cui esiste una ipotesi di partnership pubblico-privato, sul modello Felettino: la scelta di un modello rispetto ad un altro non è indifferente rispetto agli sviluppi della sanità ligure. 

Il quadro delle mancanze del Piano, o delle sue storture, è ancora più evidente scorrendo le misure legate al principale strumento che dobbiamo mettere in campo per garantire la sanità pubblica, cioè la prevenzione. Mentre nelle altre Regioni che stanno affrontando la discussione in una maniera integrata, le misure liguri sembrano collocate in maniera disconnessa con il resto del piano con delle clamorose mancanze. La principale è l’assenza di una strategia struttura per quanto riguarda la sicurezza nei luoghi di lavoro e gli PSAL, in una Regione con la presenza di settori ad alta intensità di potenziali incidenti, con la presenza delle attività portuali, e con una mole di investimenti che devono imporre strategie, qui assenti. Ma non è il solo caso, di clamorose assenze, come quelle sul clima e sulle misure ambientali, sempre nel campo della prevenzione. Oppure l’assenza di riferimenti nella parte dei minori alle tematiche riguardanti l’autismo, i disturbi dell’apprendimento o  ai disturbi dell’alimentazione, trattati senza un quadro chiaro e in maniera piuttosto superficiale.

E in ultimo non si può non sottolineare come si dia poca centralità alla salute mentale, un tema che interessa in maniera sempre maggiore larghe fasce di popolazione e che sta pienamente nell’approccio del benessere inteso in maniera complessiva di salute fisica e mentale. In questo senso abbiamo come forze di minoranza presentato la richiesta di prevedere un sempre maggiore servizio di psicologia di base, con una attenzione specifica sulla scuola, per rendere strutturali iniziative ad oggi sperimentali. Con un nostro emendamento è stata prevista la presenza obbligatoria degli psicologi nelle 32 case di comunità, e speriamo sia un primo passo per arrivare ad un Patto per la Salute Mentale di carattere regionale che ad oggi manca.

E in materia di benessere, manca un esplicito riferimento alle condizioni del personale sanitario e socio sanitario: il burnout, dopo 3 anni di pandemia, i fenomeni di stress lavoro correlato sono in grande aumento, e servirebbe un piano e una azione strutturale per conoscere le condizioni di chi si è preso cura di noi e ha affrontato, con ritmi e pressioni disumane, l’emergenza pandemica, la carenza del personale, affrontando aggressioni e tensioni sempre maggiori.

In conclusione, il Piano Socio Sanitario in discussione rispecchia appieno un atteggiamento “minimalista” della sanità pubblica e della politica sanitaria regionale che invece di costruire le condizioni per l’integrazione sociosanitaria nei fatti si consegna alla disintegrazione del sistema pubblico, sempre più debole e più esposto alle prossime crisi.

Un quadro desolante, in cui il Piano rinuncia ad avere le ambizioni di guidare i processi, per la sua vacuità e la sua estrema flessibilità. Restano, mai corrette e neppure dichiarate le tendenze di lungo corso della politica sanitaria di Toti.

La tattica di Toti e della destra, lungo questi anni, è stata di anestetizzare completamente gli elementi di discussione e di tensione sulla sanità, diluendoli in scelte che smontavano pezzo a pezzo gli elementi essenziali della sanità pubblica. Come nell’esperimento della rana bollita di Galvani, la destra ha scelto piano piano di sottrarre elementi, di correggere, di scavare fino a quando la scelta non si consolida: nei fatti le ASL sono state chiuse, ma formalmente restano; la privatizzazione degli ospedali come elemento di ingresso dei privati nella sanità ligure è stata sostituita con un flusso sempre maggiore di acquisto di prestazioni dai privati, che hanno eroso spazio e ruolo ad un pubblico sempre più in difficoltà. Una privatizzazione di fatto, che consente di avere casi come quello del Saint Charles di Bordighera dove si sperimenta anche la privatizzazione di un Punto di Primo Intervento.

Ma gli esiti di questa tattica non hanno portato nessun miglioramento nei fondamentali della sanità ligure. Anzi. Tre quarti dei liguri è insoddisfatto delle liste d’attesa; uno su quattro è stato costretto a rivolgersi al privato; il bilancio dell’edilizia sanitaria ad oggi è fermo a zero ospedali realizzati, rischiamo di avere 150.000 liguri senza medico di base nei prossimi anni. Per questo la ricetta di Toti ha fallito

Al cuore di questo c’è una falsa equazione: che se le prestazioni per i privati sono gratuite per il cittadino, esse siano parificabili a quelle pubbliche. E che pubblico e privato siano indifferenti per l’erogazione delle diritto alla cura. In realtà, non è così: senza la tenuta, l’investimento sulla sanità pubblica, non ci può essere universalità delle cure, non ci può essere prevenzione, non ci può essere la gestione dell’emergenza, di tutta quella infrastruttura che costituisce il Servizio Sanitario Nazionale e che deve gestire in maniera chiara e con un governo chiaro anche il rapporto con il privato, che va integrato all’interno degli obiettivi di cura previsti dal pubblico e non lasciato espandere nei settori dove ha maggiore redditività, senza una responsabilità generale.

In tutto ciò, Toti e la destra, ormai usi ad obbedir tacendo al Governo Meloni, rimuovono dalla discussione altre due scelte politiche che si schianteranno sul già assai fragile sistema sanitario ligure. La prima è rappresentata dalla stretta contributiva sui medici e sui dipendenti pubblici: un delitto perché porterà ancora di più a svuotarsi le corsie e le strutture sanitarie. In un momento in cui si fa fatica a trovare nuovo personale sanitario, si accelera l’uscita di quello prossimo alla pensione, costretto a fuggire prima dell’arrivo dei tagli. Su questo Toti non ha speso una parola, così come non l’ha spesa neppure sull’insufficiente stanziamento del Fondo Sanitario Nazionale, non in grado di coprire minimamente le esigenze della nostra sanità. 

Ma l’essere diventato lo scendiletto del Governo Toti non lo limita solo nell’agire contingente, ma anche nella questione assai più delicata dell’assetto istituzionale e del ruolo delle Regioni. Il disegno di legge sull’autonomia differenziata, con la competizione tra sistemi regionali anche in sanità, significa  l’implosione del sistema sanitario ligure, che si troverebbe a competere, anche dal punto di vista delle retribuzioni, con le regioni vicine, confinando peraltro con Emilia e Lombardia, i modelli più attrattivi di cui già ora subiamo gli effetti per quanto riguarda le fughe e il personale. Prudenza consiglierebbe di escludere la sanità dalle materie oggetto della discussione per salvare un barlume di universalità delle cure ed evitare la guerra tra regioni sulla sanità e sul diritto alla salute.

Poi, registro una miopia sul lungo periodo. È incredibile che questo piano Non veda le tendenze demografiche della nostra regione, non si prepari agli effetti dell’aumento delle cronicità, dell’invecchiamento della popolazione, dell’inverno demografico, sperimentando sin da subito strategie per la presa in carico, per l’assistenza domiciliare, per una medicina d’iniziativa davvero capace di affrontare le sfide dell’invecchiamento della popolazione e del bisogno di cura e di assistenza che si dovrà affrontare nei prossimi anni – e che dovrebbe avere al centro una fortissima integrazione tra misure sociali e sanitarie (dalla casa, alla povertà, alle solitudini relazionali, alla cittadinanza, alla residenzialità e la non autosufficienza, la cui riforma non viene minimamente citata). In una regione che avrà sempre più aree di desertificazione sanitaria, come le aree interne, in cui gli strumenti presenti (si pensi agli infermieri di Comunità, telemedicina) risultano ancora troppo fragili e non sistematizzati.

È quindi tutto sbagliato, tutto da rifare il sistema ligure? 

No, assolutamente: quello che è sbagliata è la direzione che la destra ha scelto di intraprendere, ammantandola peraltro come uno scenario inevitabile di declino della sanità pubblica. Non lo è, è figlio di alcune scelte politiche. E se si vorranno fare delle altre precise scelte politiche le alternative esistono, sia sul breve che sul medio-lungo periodo. E però devono investire ogni livello istituzionale. 

A partire dal governo, con l’aumento strutturale per la sanità pubblica pubblica al 7,5%, lo stop ai blocchi delle assunzioni. È una proposta di legge al parlamento che riprende quanto richiesto dalla Conferenza delle Regioni e votata quindi anche dal Presidente della Regione Toti. Regioni di centrosinistra hanno già deliberato, ma anche il Piemonte e le Marche, perché prima della fedeltà alle forze politiche esiste l’esercizio dei proprio ruoli istituzionali per il bene delle proprie comunità. Assieme a ciò sarebbe un primo passo una battaglia per l’aumento delle retribuzioni del personale sanitario e socio sanitario – tentato dall’estero e dal privato che garantiscono migliori condizioni. Un’operazione di “ritorno dei medici”, accompagnato da migliore prospettive di ricerca ed esercizio della professione.

Ma accanto a ciò la Regione può cominciare a ragionare su un modello alternativo. Che parta da uno dei portati dimenticati della pandemia: nei primi mesi la discussione sulla cura, sui servizi, sull’assistenza, sulla presa in carico, sul riconoscimento dei bisogni aveva assunto una dimensione e un coinvolgimento pubblico. Sindaci, operatori del terzo settore, soggetti economici, sindacali sociali, del volontariato avevano definito reti di necessità, in una forma non codificata di “democrazia sanitaria” che aveva provvisoriamente abbattuto i muri della discussione tra quello che accadeva dentro un ospedale e quello che si poteva fare fuori (nel momento in cui gli ospedali erano inaccessibili peraltro). Ecco, quella rete di attivazione di cura, quella responsabilizzazione comune dei soggetti è andata dispersa e le forme di discussione, di coprogettazione e copartecipazione si sono inaridite, Eppure costituiscono un patrimonio per la costruzione del diritto alla cura fondamentale. Nel merito, a fronte delle tendenze demografiche dei prossimi anni, occorre invertire davvero la piramide della cura, dall’ospedalizzazione alla prevenzione, con  scelte organizzative, territoriali, di estrema prossimità, di nuove forme di residenzialità e assistenza per rispondere alle tre crisi della non autosufficienza, della cronicità e delle solitudini che dovremo affrontare, in quanto regione più anziana d’Italia ma che fa fatica ad adattarsi a questo destino. Serve immaginazione politica e scelte conseguenti, un investimento costante per ripristinare la centralità della cura e del benessere nella nostra regione, non con soluzioni tampone o con una progressiva e lenta ritirata del pubblico come organizzatore delle risposte ai bisogni di salute dei cittadini.

Per questo pensiamo che il piano presentato sia una occasione perduta di rilanciare la rete di cura nella nostra regione e la certificazione di un fallimento politico e istituzionale, che non può venire compensato dal fatto che si dovranno spendere i fondi del PNRR, che senza un’idea di sanità rimangono solo fondi per scatole vuote senza futuro. Per questo ci opporremo a questo piano, ultimo atto di una strada senza sbocco. 

Margaret Mead, famosa antropologa, ad uno studente che le chiedeva quali fossero i segni della nascita della civiltà in una cultura antica, rispose: un femore rotto e poi guarito. Non rispose il fuoco, o la ruota, o l’agricoltura. Un femore rotto e poi guarito. Nel regno animale nessuno sopravvive in queste condizioni. Un femore rotto e poi guarito è il segno che qualcuno si è preso il tempo di stare con colui che è caduto, ne ha bendato la ferita, lo ha portato in un luogo sicuro e lo ha aiutato a riprendersi. La civiltà inizia nel punto preciso in cui iniziamo ad avere cura di qualcuno e a curare qualcuno. 

Ecco, quando parliamo di sanità e di cura, c’è qualcosa di più profondo delle questioni di carattere economico, di un modello sanitario rispetto ad un altro, di dove collocare un ospedale o un ambulatorio, ma per qualcosa che attiene alla coesione sociale e ai punti necessari che tengono vivo un patto di comunità. Difendere il diritto alla salute, la sua universalità, il suo accesso a tutti, effettivo, reale, significa garantire un punto di tenuta di una società; significa responsabilizzare al rapporto con gli altri, al sostegno nelle difficoltà, alla solidarietà e alla mutualità. 

Un valore che oggi più che mai dovremmo difendere, quando lo vediamo deperire o mettere in discussione. Difendere il diritto alla cura è una scelta di civiltà.

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