Il terzo sciopero mondiale sul clima che ha visto riempirsi le piazze di tutto il mondo riattiva la discussione su quello che deve fare la politica per consegnare la possibilità alle nuove generazioni di vivere in un mondo che non sia completamente travolto dai cambiamenti climatici che l’uomo ha generato nel nostro Pianeta.
Gli scienziati da tempo hanno coniato la parola Antropocene per definire l’era geologica in cui viviamo, condizionata per la prima volta dagli effetti dell’attività umana. Un evento dagli effetti difficilmente calcolabili e difficile anche da immaginare nella sua portata complessiva. Chiavi interpretative, azioni politiche, ideologie che hanno reso il mondo come oggi è risultano quindi strumenti non più adatti alle sfide del futuro. Che arriva a noi con grande velocità.
Mentre attorno a Greta Thunberg, icona del movimento Fridays for Future, si catalizzano frotte di haters, anche a livelli locali si assiste a pedanti osservazioni di adulti con il ditino alzato che fanno la morale ai ragazzi perché non vanno in piazza di domenica o desensibilizzano l’atto politico dello sciopero regalando giustificazioni gratuite a chi è sceso in manifestazione il 27 settembre. E’ facile criticare quello che non si comprende, o provare ad inserire questo movimento nelle comode categorie a cui siamo abituati. Ma, se si vuole essere all’altezza di quello che questo movimento chiede, bisogna provare a cambiare paradigma e le lenti con cui guardiamo il mondo.
Mi è rimasta molto impressa la scena del Presidente della Giunta Regionale Toti che – a seguito del rifiuto ad incontrarlo da parte dei manifestanti nello sciopero del 27 – spiegava ai ragazzi di Fridays For Future che l’ambientalismo significa dire sì alle infrastrutture. Ora, il fatto che chi guida la Regione italiana più esposta al cambiamento climatico individui il tema delle infrastrutture come la chiave principale per risolvere la crisi è il segno di una grande distanza politico culturale tra le richieste – varie – di quel movimento e la politica.
La crisi climatica impone a tutti i livelli di ragionare sui limiti del sistema Terra, oltre i quali ci siamo spinti da troppo tempo. Non è solo una questione definibile nell’orizzonte dell’ambientalismo come l’abbiamo conosciuto. Ma l’orizzonte è invece quello della sostenibilità, intesa come un modello di sviluppo che nel soddisfare i bisogni dell’oggi non pregiudichi quelli delle future generazioni.
La cosiddetta Agenda 2030 per lo sviluppo Sostenibile, fissata dagli Accordi di Parigi del 2015, chiarisce che la sostenibilità non è un tema solo ambientale, ma principalmente un tema di giustizia. I 17 obiettivi di sviluppo sostenibile sono interconnessi l’un l’altro: dalla eliminazione delle disuguaglianze, la lotta alla fame, la difesa dell’istruzione, l’accessibilità al lavoro dignitoso, la parità di genere, l’innovazione tecnologica, la costruzione di modelli di consumo e produzione sostenibili. Sono dimensioni ambientali, economiche, sociali e istituzionali all’interno dei quali bisogna muoversi ad ogni livello, spostando con radicalità i pesi e le distribuzioni dei poteri tra assetti insostenibili di sviluppo verso quelli sostenibili. Sapendo però che le scelte di trasformazione del nostro modo di vivere devono essere eque e accessibili a tutti. La sostenibilità non può essere a favore solo di chi ha le risorse materiali per poter scegliere stili di vita meno impattanti, comunità dove i servizi siano migliori, ecc. ecc. Quando si vieta l’accesso a mezzi inquinanti per esempio in alcune aree della città, si deve pensare ad esempio che non per tutti è possibile sostenere l’acquisto di un nuovo mezzo, magari più costoso. Come agire in questo senso? Facendo uguali tra disuguali e differenziando tra chi può e chi non può? Per questo la sfida ambientale è anche e soprattutto una sfida di riduzione delle disuguaglianze e di ridistribuzione del potere.
E ad ogni livello questa agenda deve essere applicata. Nelle Regioni significa orientare bandi e finanziamenti a progetti che abbiano come primo obiettivo la sostenibilità e la resilienza: dalla prevenzione del dissesto, al recupero della rete della strategia aree interne per contrastare lo spopolamento e l’abbandono del nostro entroterra. Significa la costruzione di infrastrutture sociali: ridefinire una rete di welfare di comunità, rendere accessibile la sanità a partire dai ceti più deboli e più fragili; rimettere al centro il tema della scuola, andando oltre alla logica a pioggia dei voucher per gli asili nido, ma con politiche di contrasto all’abbandono scolastico; vuol dire creare un Piano regionale contro la povertà e l’esclusione sociale; attivare processi di “riconquista” delle periferie urbane e dei luoghi “che non contano” rispetto ai centri urbani; ricostruire nuovi tempi di vita e di lavoro investendo sull’innovazione tecnologica e incentivando la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario; significa promuovere un grande piano di forestazione urbana per limitare gli effetti del riscaldamento nelle città, solo per fare alcuni esempi. La sfida dei prossimi anni sarà quella di guidare le nostre azioni politiche sull’orizzonte degli investimenti sostenibili, ambientalmente e socialmente. Una sfida al modello di sviluppo che abbiamo conosciuto finora. Una sfida globale, sicuramente, ma che si deve giocare anche a livelli di comunità locali.